Due ore e quarantacinque minuti

Potrei iniziare raccontando la storia della mia famiglia, parlarvi di mio nonno, delle sue peregrinazioni in terre anglofone, di come sia tornato e abbia costruito, nel lontano 1911, una casa abbastanza grande da ospitare una famiglia davvero numerosa. Potrei, ma non lo farò, almeno questa volta.
La casa, tuttavia, esiste ancora e, di recente, abbiamo iniziato a fare qualche lavoretto di restauro alle strutture sanitarie della stessa.
Questa è la ragione per cui, di giovedì,  ho dovuto scendere in campagna per stare un poco dietro a questa ristrutturazione. Sono single al momento, per cui, facendomi due conti in tasca ho deciso che sarebbe stata una buona idea usare il treno e servirmi dei mezzi di trasporto pubblico per raggiungere la mia meta. Premetto che la notte avevo dormito male e la prospettiva di due ore seduto in uno scompartimento suonava con un invito a una pennichella pomeridiana ambita ma sopratutto  necessaria. Mi sono alzato presto ieri, avrei volentieri dormito un oretta in più, ma,  forse per qualche nevrosi non confessata, forse a causa di troppo karma negativo accumulato, alle sette ero in piedi come una sentinella che inizia il proprio turno di guardia.  Dopo una colazione leggera ho preparato la valigia: avrei voluto usare lo zaino da trekking ma, nel bagaglio, erano compresi una racchetta da tennis e un pc portatile per cui ho optato per un ingombrante, e affidabile, trolley rosso fuoco che mi accompagna da tempi immemori.
Ancora una volta il fido accessorio si è mostrato all’altezza della situazione e ha contenuto tutto quello che volevo metterci dentro.
Ho pensato che fosse un buon inizio.

Dopo un rapido check delle cose indispensabili, chiavi di casa, cellulare, portafoglio e cuffie, sono uscito e ho intrapreso a piedi lo spazio che separa la mia dimora dalla stazione ferroviaria. Non un tratto complicato ma con il valigione neppure troppo semplice.
Giunto a destinazione faccio il biglietto all’automatica risparmiando fila e discorsi, e ho il tempo per una seconda colazione a base di acqua e brioche alla crema di cui sono particolarmente ghiotto.
Non dovrei ma viaggiare mi mette appetito.

Il treno, per qualche miracolosa combinazione astrale, non ritarda e io mi accomodo al posto 22, lato corridoio, della carrozza numero sei trovandolo incredibilmente vuoto.
Non del tutto vuoto , a essere sinceri.

Seduta di fronte a me una donna stava, con essa v’era una dama di compagnia dall’aspetto esotico di odalisca. Saluto, tiro fuori dalla borsa l’acqua e un libro, mi siedo metto il cappello nero in testa, calo la tesa, accendo l’mp3 e provo a farmi un sonno.
Il Diavolo non farà i coperchi ma le vecchie chiacchierone sono di certo  sua competenza.
La gentile signora inizia a parlare con la sua badante, dapprima silenziosamente, quasi un sussurro ma, metro dopo metro, stazione dopo stazione, alza di poco il tono andando persino sopra la musica che cercavo di ascoltare per isolarmi dal mondo.
Parla, parla, parla con la voce più sgraziata che si possa immaginare fuoriuscire dalla bocca di una donna. Commenta , racconta, critica con la saccenza  tipica di chi non conosce nulla ma tutto crede di capire.
La dama di compagnia sorride falsamente, io, con la visiera sugli occhi cerco di concertarmi e di riposare, sono stanco, voglio solo chiudere gli occhi mezz’ora.
La signora non era, evidentemente, d’accordo.
Il dramma si consuma quando salgono altre ragazze che , oltre a mangiare  panini dall’odore invitante, fanno capannello con la grande antica.
Comprendo che l’idea di riposare è sfumata, dunque apro il libro e inizio a leggerlo stancamente.
La vecchia non aveva in simpatia l’autore poiché nel momento in cui mi sono messo a leggere, vi giuro lo stesso momento, prova a tirare in mezzo anche me al discorso.  Rispondo a gutturali e monosillabi e almeno questa battaglia la vinco.
Riesco a leggere si e no dieci pagine quando il brusio della signora, che nel frattempo ha aperto un dibattito con gli altri passeggeri, diventa insopportabile. Chiudo il libro e mi metto a guardare il mare dal finestrino sino alla stazione di arrivo.
Non saluto, il buonumore e la cortesia sono scesi alla fermata precedente.

Ho poco tempo, una volta giunto, poiché so che la corriera che mi porterà all’antica magione parte dopo solo 10 minuti dall’arrivo del treno che, va detto, viaggiava in perfetto orario.  La successiva, per qualche strano motivo, passa un’ora e tre quarti dopo!
Scendo, a rotta di collo, nel sottopassaggio, svolto a destra , salgo le scale e  punto la tabaccheria dove comprare il biglietto per l’autobus.
Davanti a me, due turiste tedesche, una frotta di bambini cinesi, e altre due signore indecise tra alfa senza filtro e gratta e vinci.
Compro, in perenne stato di agitazione, il biglietto, da buon ligure riesco a rubare un secondo per lamentarmi del prezzo e mi dirigo verso la fermata della corriera.
Il destino pare scusarsi con me poiché, non solo è in orario,  ma arriva esattamente quando io mi metto sotto la pensilina.
Salgo, è piena, ma di questo non mi importa: con la valigia che mi ritrovo sarei dovuto stare in piedi comunque. Mi sistemo nella zona disabili pronto agli ultimi dieci minuti di viaggio.

Parrà chiaro ai miei lettori che non sono un aruspice, non leggo il futuro: infatti anche questa volta mi sbagliavo.
Dovete sapere che per arrivare al mio paesello ci sono due strade: la prima  nuova  e veloce l’altra vecchia e piena di curve nota al mondo come “La Foce” ma , vi giuro, non c’è alcun fiume per chilometri.
Non sto neppure a dire quale ho percorso.

Giungo a casa, due ore e quarantacinque minuti esatti dalla partenza. La vecchia dimora patria sta lì , bellissima , con un bel cielo azzurro come sfondo.
Apro la porta e il suono cristallino di trapani a percussione sembrano il benvenuto ideale dopo un viaggio del genere!

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